di Aldo Braccio
A cinque anni dal centenario della Repubblica (2023), la Turchia ha confermato la svolta presidenzialista sancita nel referendum 2017 premiando la maggioranza AKP – MHP e “incoronando” l’autentico protagonista della vita politica turca dal 2002 ad oggi, Recep Tayyıp Erdoğan.
Una certa pubblicistica contrassegnata da superficialità e pregiudizio presenta il sistema di governo turco e specialmente Erdoğan come – rispettivamente – “regime” e dittatore, secondo il consueto paradosso occidentale per il quale il responso delle urne non viene accettato quando non coincide con le proprie aspettative e con il pensiero liberista politicamente corretto imposto dalla Globalizzazione; così, si finge di non vedere che alle recenti elezioni turche hanno preso parte l’87 % degli aventi diritto – una percentuale notevole, ben superiore alla media delle elezioni europee – e che le consuete, iniziali accuse di “brogli” non hanno trovato il minimo riscontro venendo rapidamente accantonate perché insostenibili.
Quello che ci sembra bisogna riconoscere è piuttosto che la Turchia, sotto i governi di Erdoğan, rappresenta e ha rappresentato nell’area vicinorientale un fattore di ambiguità e di instabilità a corrente alternata: se dal punto di vista interno essa ha indubbiamente conseguito esiti positivi in campo sociale ed economico, sottraendosi fra l’altro all’indebitamento e ai ricatti del Fondo Monetario Internazionale, nel quadro geopolitico ha oscillato più volte fra il fronte atlantista e una politica di tipo eurasiatista favorevole a buoni rapporti con Paesi quali la Russia, l’Iran e l’Iraq stesso.
Il drammatico caso della Siria è ovviamente quello maggiormente esemplare: la Turchia di Erdoğan è passata da una politica di collaborazione e di amicizia con lo Stato arabo (una politica coraggiosa, che aveva ribaltato decenni di tensioni e di ostilità intercorsa fra Ankara e Damasco) a una strategia schizofrenica che l’ha vista complice e anzi protagonista della cinica guerra di aggressione scatenata da parte occidentale contro quel martoriato Paese.
In seguito dal 2016, dopo il tentato colpo di Stato (luglio) chiaramente ispirato da ambienti NATO, ma in qualche misura già dal maggio di quell’anno con la l’estromissione di Davutoğlu e la nascita del governo Yıldırım, la posizione turca si è modificata radicalmente, giungendo a costituire con Russia e Iran un accordo (protocollo di Astana) alla ricerca concreta di una soluzione della tragica crisi siriana, mettendo fine a un intervento bellico eterodiretto risultato fra l’altro sempre assolutamente impopolare nell’opinione pubblica turca.
Con tutti i suoi difetti e i suoi limiti (non dimentichiamo che si tratta, anche se certamente con scarsa convinzione, di un Paese NATO), la Turchia rappresenta un attore troppo importante per essere trascurato dalle ingenti forze presenti nell’area: alcune senza alcun titolo per starci o rimanerci – come gli Stati Uniti d’America, un Paese estraneo che vuole continuare a imporre il proprio dominio unipolare e il proprio modello di vita, ostile a identità e differenze – altre alla ricerca e alla rivendicazione della propria sovranità e indipendenza in un contesto diverso dall’attuale.
La Turchia procede in un cammino difficile, intervallato da una guerriglia terroristica endemica e da frequenti colpi di Stato e tentati colpi di Stato diretti a confermare quel suo ruolo di sentinella dell’Occidente che ormai le va stretto: questo può spiegare la scelta di un sistema presidenziale più forte e decisionista – e ciò al di là della simpatia o antipatia che il Presidente rieletto Erdoğan può suscitare – nonchè la rivendicazione del tutto legittima della sua identità islamica che un laicismo ostentato e continuamente attizzato dall’Occidente non può far venir meno.
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